Cosa passava per la
mente dei politici che governavano il paese agli albori dell'infelice idea di
costruire la gabbia, dell'€? Il fatto è, che già negli anni settanta,
la consapevolezza dimostrata, da atti parlamentari dell'epoca, che della trappola delle valute era certa e
matematicamente fallimentare. Ma già in quegli anni le lotte parlamentari
si facevano su chi tuonava e ci avvertiva responsabilmente sull'insostenibilità
dell'area UEM, ed era abitudine (anche odierna) di sproloquiare
sull'essere anti-europeista, come dire: non é possibile non credere al
"sogno" di egemonia popolare e ricchezza diffusa. Balle!!! lo
sapevano ed in più c'è chi ha cambiato idea e se la tiene istituzionalmente
stretta ancora oggi.
Il ridisegno della
società europea, ma più di tutto quella italiana è avvenuto...le conseguenze
sono sotto i nostri occhi .
Ora vediamo (argomento ampiamente divulgato in rete ma, attualissimo e da condividere) come questo
fosse stato tutto previsto... nell’ intervento di Luigi Spaventa http://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Spaventa alla camera dei
deputati, era il 12 Dicembre del 1978 occasione ne era la ratifica italiana del
sistema monetario "SME" (spiego qui la nostra uscita nel 1991
seduta martedi 12
dicembre 1978
Signor Presidente,
colleghi deputati, signori
rappresentanti del Governo, so - e quanto ci è stato detto oggi lo dimostra -
che il Presidente del Consiglio [Giulio Andreotti] non tiene in gran conto le
questioni tecniche o i pareri tecnici, che egli riduce ogni questione tecnica
solo a questione politica e che, compiuta questa operazione egli - forse non a
torto - pensa solo a chi conta, poco curandosi di valutare benefici e costi che
derivano da una decisione.
Per questa ragione, per non tediarlo,
mi limiterò solo a riassumere, quasi per memoria, tutte le ragioni economiche
che hanno indotto una larga maggioranza di studiosi e di esperti di
orientamento politico il più diverso e variegato - e tra questi alcuni che
hanno cambiato idea all'ultimo minuto - ad esprimere valutazioni non positive
sul sistema monetario europeo, quale si veniva configurando, e sull'opportunità
della nostra adesione ad esso.
Riassumerò solo questi punti di
vista, perché vorrò poi considerare quale rispondenza vi sia fra quanto a suo
tempo richiesto dal Governo - e non solo dal Governo, ma anche da persone che
oggi reclamano la nostra adesione a qualsiasi costo - e quanto ci viene oggi
offerto.
E mi chiederò, infine, quali siano le
ragioni politiche che dovrebbero sovrastare ogni altra considerazione e indurci
ad una adesione immediata, come ci è stato annunciato, piuttosto che a
soluzioni più caute e meno gravide di rischi per la nostra economia.
Le ragioni che sono state addotte
dagli esperti, da tecnici, da economisti, da ministri del suo Governo, signor
Presidente del Consiglio, per dubitare dell'opportunità di una nostra adesione
immediata al sistema monetario europeo sono di due tipi, e non riguardano solo
l'Italia, come viene generalmente detto.
Un primo ordine di ragioni trae la
fonte dal presente assetto dei rapporti economici internazionali.
Sappiamo oggi che, in seguito
all'aumento dei prezzi del greggio, esiste un disavanzo strutturale delle
partite correnti del complesso dei paesi industrializzati e che questo disavanzo
complessivo non può essere ridotto con movimenti di cambio, ma può essere
ridotto solo attraverso movimenti di reddito e recessione.
E allora, se non si definisce il
saggio di crescita per il complesso dei paesi industrializzati, risulta
impossibile definire per ciascun paese un tasso di cambio di equilibrio.
Mancando informazioni sul tasso di
crescita che l'area vuole perseguire, mancando decisioni su quanto del
disavanzo complessivo tocchi a ciascun paese in relazione alla sua dipendenza
dall'estero e alle sue esigenze di sviluppo, non esiste per ciascun paese tasso
di cambio di equilibrio.
E mancando queste intese, il
disavanzo complessivo, quasi che fosse un carico che si muove non stivato bene
in una nave su un mare in tempesta, tende a concentrarsi in quei paesi la cui
crescita diviene più rapida di quella degli altri o in quelli in cui i costi ed
i prezzi aumentano più rapidamente degli altri.
In questa situazione, i movimenti di
cambio correggono, pur se temporaneamente, i risultati di una diversa
evoluzione di costi e prezzi, di una diversa inflazione, ma non riescono ad
assicurare la possibilità di una crescita più rapida degli altri ai paesi che
vogliano farlo.
Poiché persistono differenze tra diversi paesi in merito alle esigenze
ed agli obiettivi di crescita, si manifesta una generale tendenza
all'abbassamento del ritmo di crescita.
Ciò dipende dalla asimmetria di
trattamento fra paesi che si
trovano in disavanzo perché vogliono crescere di più e paesi che si trovano in
avanzo perché vogliono svilupparsi di meno.
La riduzione delle riserve e la
difficoltà di rinvenire prestiti obbliga i primi - i paesi in disavanzo - a
politiche interne restrittive, ma non vi è alcuna sanzione che obblighi i paesi
che accumulano riserve ad adottare politiche interne più espansive.
E, dopo tante altre, la recente
vicenda degli Stati Uniti è la prova immeditata di queste proposizioni.
Mentre l'Europa languiva e si
compiaceva di una stagnazione della crescita, gli Stati Uniti tentavano di
riprendere una loro crescita.
Qual è stata la risposta europea?
La risposta europea non è consistita
nell'alleviare il disavanzo della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti,
promuovendo una crescita maggiore.
L'Europa ha chiesto agli Stati Uniti
di ridurre la loro crescita; ha consentito e promosso una svalutazione del
dollaro; ha raggiunto una situazione che in ogni libro di testo di economia si
definirebbe “molto meno che ottimale”.
Il sistema monetario europeo nasce,
per così dire, all'insegna di questa risposta.
Quest'area monetaria rischia oggi di
configurarsi come
un'area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio
viene perseguita a spese dello sviluppo dell'occupazione e del reddito.
Infatti, signor Presidente del
Consiglio, non sembra mutato l'obiettivo di fondo della politica economica
tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da
ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno
sviluppo più rapido della domanda interna.
Da ciò deriva un sacrificio per i
paesi più deboli, che potrebbe essere evitato con generale vantaggio se si
instaurassero regole
efficaci di simmetrie e di obblighi, ma tali regole sono state
rifiutate non tanto con riferimento agli interventi di cambio degli
accordi di Brema, ma con riferimento al tentativo generoso a suo tempo compiuto
dall’OCSE: le richieste dell'OCSE furono esplicitamente accantonate nel vertice
di Bonn.
Inoltre - come è stato detto altre
volte (e mi limito qua a riassumere sempre per non tediarla) - il sacrificio
per i paesi più deboli può risultare più accentuato dalla circostanza che il
problema del dollaro, come risulta dal comunicato, non è stato neppure
affrontato nei diversi vertici ed in particolare in quello di Bruxelles.
Sempre per riassumere, consideriamo
ora le questioni che non riguardano l'economia internazionale, ma la nostra
economia.
Si vorrà riconoscere che la nostra
economia parte con differenti condizioni iniziali, quali che siano i propositi
che noi ci possiamo porre e quali che siano le intenzioni che noi possiamo
avere.
In primo luogo, nell'ambito della
Comunità europea, abbiamo -
a parte l’Irlanda - l'economia
con il più basso livello di reddito pro capite, con le massime differenze
regionali di sviluppo, con la disoccupazione più elevata, con la struttura
industriale più fragile: in conseguenza dovremmo cercare di realizzare un tasso
di crescita del reddito, e soprattutto degli investimenti, più elevato di
quello degli altri paesi.
In conseguenza, ancora,
se non vogliamo ricorrere - come nessuno di noi vuole ricorrere - a misure.
protezionistiche, data la propensione ad importare il tasso di sviluppo delle nostre esportazioni
dovrebbe essere più elevato di quello altrui, onde pagare le importazioni
necessarie per la nostra crescita; oppure dovremmo poter contare su
stabili entrate in conto capitale.
In secondo luogo, nonostante i
progressi compiuti, persiste da noi una
notevole differenza di inflazione, di costi e prezzi rispetto alle altre
economie europee: nella migliore delle ipotesi l'accostamento alla media
europea potrà essere solo graduale a causa della forza dei fattori iniziali e
delle difficoltà di rovesciare le aspettative.
Sarà comunque impossibile, sia per noi sia per gli altri paesi, adeguarsi al ritmo di inflazione previsto
per la Germania che rappresenta un fattore di squilibrio non minore oggi di
quanto non sia il nostro ritmo di inflazione.
Queste valutazioni sono state
recentemente documentate con precisione dal professor Mario Monti in un
articolo su Il Sole 24 ore al quale rinvio i colleghi.
In un momento in cui la situazione
monetaria internazionale è in uno stato di profonda incertezza - soprattutto
per quanto riguarda i rapporti di cambio tra il marco ed il dollaro - che cosa
avverrebbe in questo sistema monetario
(che consiste essenzialmente solo di un accordo rigido di cambio, più rigido di quello di Bretton
Woods, perché non sono consentiti mutamenti unilaterali di cambio, non integrato
neppure dalla definizione di obiettivi di crescita né temperato da una
attribuzione di obblighi proporzionati alla forza relativa delle diverse
economie) se si verificasse nuovamente - prima ipotesi - un
indebolimento del dollaro?
Il marco subirebbe pressioni al
rialzo, accentuando i movimenti speculativi; le valute ad esso agganciate
subirebbero rivalutazioni effettive; nel
caso della lira, tali rivalutazioni risulterebbero ancora maggiori in termini
reali, ossia in rapporto alla evoluzione differenziale di costi e prezzi.
Infatti, non solo di rivalutazioni effettive si deve
parlare, ma anche di rivalutazioni in termini reali.
Ne deriverebbe una delle due
conseguenze: o un ulteriore sacrificio della crescita per ridurre le
importazioni, onde mantenere un livello di cambio realistico,
oppure svalutazioni ripetute, ma
sempre tardive rispetto alla perdita di riserve che si sarebbe nel
frattempo verificata.
Consideriamo l’ipotesi opposta,
signor Presidente: una ripresa tendenziale del dollaro, dovuta non già ad un
più rapido sviluppo delle economie europee - come sarebbe desiderabile - ma a
tre altri fattori, tutti negativi, che derivano dalla risposta che l’Europa ha
voluto dare alla crisi degli Stati Uniti: riduzione dello sviluppo
statunitense; aumento, già verificatosi, dei tassi di interesse americani e
dunque dei tassi di interesse sul mercato dell’eurodollaro; manifestarsi, con
il consueto ritardo, degli effetti della avvenuta svalutazione sulla bilancia
commerciale americana.
In questo secondo caso, la nostra
economia subirebbe un duplice danno: sulla bilancia commerciale, a motivo del
maggiore costo delle importazioni di fonti di energia e di materie prime e a
motivo della maggiore competitività delle merci americane; sul conto capitale
perché, come già sta avvenendo, si invertirebbe il movimento dei fondi a breve
di cui abbiamo finora beneficiato, poiché si verificherebbe un differenziale, a
favore del dollaro (anziché a favore della lira, come nell’ultimo anno), dei
tassi di interesse corretti per le prospettive del cambio.
Risulterebbe difficile, in questa
seconda ipotesi, impegnarsi a mantenere la parità con le altre monete europee
e, ove l’impegno sia stato assunto, a mantenerlo per lungo tempo.
Nell’uno e nell’altro caso non è
questione di richiedere o di favorire svalutazioni competitive.
Si tratta piuttosto di impedire che il cambio assuma valori
incompatibili con le differenze di condizioni iniziali e di esigenze fra i diversi paesi.
Il cambio - è stato
correttamente osservato - è la più endogena delle variabili: non può essere trasformata o in
obiettivo fine a sé stesso o in strumento da manovrare per il conseguimento di
altre finalità.
Gli svalutazionisti di altri tempi
(neppure troppo lontani, signor Presidente), sono oggi rivalutazionisti,
illudendosi, in base al più recente dei loro modelli, che il problema della
nostra inflazione possa essere affrontato con successo imponendo alla lira
l’onere di una rivalutazione.
L’esperienza di altri paesi e la
riflessione ci inducono a non accogliere questa tesi.
Per quanto riguarda l’esperienza,
vorrei rammentare che un tentativo del genere fu compiuto dalla Svezia quando
decise di aderire al serpente monetario, nel tentativo di rivestire la virtù
scandinava della piena occupazione con il rispettabile abito borghese
dell’agganciamento al marco.
Come è noto, la Svezia dovette
lasciare il serpente avendo lacerato l’abito e perso la virtù.
Per quanto riguarda la riflessione,
conviene rinviare alla illustrazione, compiuta dal governatore della Banca
d’Italia nel suo discorso al Forex Club del 15 ottobre, del funzionamento
asimmetrico, per quanto riguarda l’effetto sui prezzi, di una svalutazione e di
una [ri]valutazione.
E, come ha scritto poi recentemente
il professor Monti, il vincolo sulla politica economica interna “non può essere
considerato come insostenibile conseguenza di un’entrata prematura nel
sistema”, poiché in questo secondo caso la ricerca delle responsabilità diverrebbe
un battibecco nazionale.
Tenendo presenti tutti gli
inconvenienti - attuali e potenziali - che ho indicato, e che prima di me hanno
indicato tanti esperti, studiosi e operatori intervenuti nel dibattito, quali
condizioni, quali temperamenti avrebbero potuto rendere la nostra adesione ad
un accordo di cambio non dico appetibile, ma almeno sopportabile?
Vi è solo l’imbarazzo della scelta
nell’indicazione di queste condizioni, nella citazione delle fonti autorevoli
che le elencano: il discorso del ministro del tesoro alla Camera il 10 ottobre,
il discorso del governatore della Banca d’Italia il 15 ottobre, l’audizione
dello stesso governatore presso la VI Commissione del Senato il 26 dello stesso
mese, un discorso del ministro per il commercio estero il 9 novembre, ripetuti
interventi del ministro dell’agricoltura.
Nella versione più blanda - si badi,
più blanda - si chiedeva che il sistema monetario europeo rispettasse tre
condizioni: che esso fosse subito operativo nei tre aspetti originali previsti,
relativi agli accordi di cambio, ai sostegni di credito e alle misure in favore
delle economie meno prospere; che ciascuno di questi aspetti avesse requisiti
minimi di accettabilità; [che] offrisse caratteristiche di flessibilità in
grado di accompagnare senza sussulti il cammino di rientro dell’Italia verso
condizioni economiche generali prossime a quelle dei paesi più forti.
Non risulta che quanti oggi chiedono
perentoriamente l’ingresso dell’Italia in questo sistema monetario europeo,
così come esso è nato a Bruxelles il 6 dicembre, abbiano mai eccepito a quelle
condizioni quando esse furono enunciate, ed abbiano significato al Governo
l’opportunità di non porre requisiti irrinunciabili.
Dirò di più: le condizioni indicate
dal Governo erano poca cosa rispetto a quelle elencate agli inizi di settembre,
ed ancora a fine novembre, da un mio collega universitario che siede nell’altro
ramo del Parlamento, tanto brillante quanto drastico nell’espressione dei suoi
pareri e tanto drastico quanto volubile nell’indicazione delle ipotesi e delle
conclusioni.
Scriveva allora il professor Andreatta (e queste opinioni egli
ribadiva ancora in ottobre) che il - problema dei trasferimenti di reddito era
reale e serio, soprattutto con riferimento alla politica agricola e a quella di
bilancio; che le proposte di Brema - di Brema, si badi bene! - parevano
insoddisfacenti rispetto alla esperienza passata, che occorreva evitare la
fissazione di parità bilaterali rifacendosi invece ad un cambio effettivo
secondo tecniche seguite da molte banche centrali, compresa la nostra (così
egli diceva allora, quando ancora non l’aveva assunta a oggetto di ludibrio);
che occorreva che le valute del debitore involontario fossero sterilizzate dal
creditore; che occorreva dotare il nuovo sistema di possibilità di credito
ampie e automatiche e non condizionate; che si doveva definire a livello
comunitario, e possibilmente d’accordo con la riserva federale americana, la
zona di fluttuazione con il dollaro; che era necessario prevedere un meccanismo
che consentisse aggiustamenti frequenti, automatici e simmetrici delle parità.
Lo stesso professor Andreatta avvertiva
il 29 novembre che “nessun trasferimento di reddito può compensare un fattivo
accordo sul meccanismo di cambio” e che tuttavia, “poiché il nostro paese deve
crescere più della media comunitaria,” occorreva sia - cito ancora -
“rovesciare l’attuale piccolo deficit dei nostri trasferimenti netti alla
Comunità in surplus di un miliardo di unità di conto; sia ottenere crediti a
lunga scadenza ad un saggio di interesse politico.”
Naturalmente, signor Presidente,
neppure i più entusiasti potevano sperare che questa lunga lista, che questo
cahièr des conditiones potesse essere accolto integralmente, e neppure i più
rigidi fra noi ritenevano che tale lista nella sua interezza dovesse costituire
un obiettivo irrinunciabile.
Anche i più rigidi ed i meno favorevoli
accettarono dunque che le condizioni fossero quelle indicate dal Governo, nei
termini generali sopra riferiti e nella specificazione di essi - che fu fatta
nelle varie enunciazioni che ho citato.
Possiamo ritenere, che quelle
condizioni - condizioni veramente minime, quando si considerino i rischi che ho
indicato, sia pure per riassunto, e i costi derivanti dalla attuazione
dell’accordo di cambio non integrato da intese sulla evoluzione delle economie
reali - siano state soddisfatte il 6 dicembre a Bruxelles o, come pure è stato
detto, siano state soddisfatte al 60 per cento?
Non pare proprio.
Zero in materia di trasferimenti reali,
da ottenersi mediante modifiche delle politiche agricole e di bilancio; pochissimo in materia di crediti:
pochissimo non solo per l’esiguità delle somme, ma anche per i condizionamenti posti all’impiego dei fondi medesimi, che devono essere impiegati in modo tale da
non alterare le condizioni di competitività, quasi che non si trattasse di
portare le regioni più povere della Comunità a condizioni di competitività pari
a quelle di altri paesi.
Ancora, negli accordi di cambio non
solo non ha trovato soluzione il problema del debitore involontario; forse
secondario; ma - più importante - ben poco si è ottenuto, come risulta dai
documenti, in
materia di simmetria degli obblighi di intervento e di aggiustamento
delle parità.
Ove il paese deviante verso l’alto sia la Germania, essa potrà sempre
addurre circostanze speciali che la esonerino dagli obblighi di intervento,
dalla adozione di misure di politica monetaria o da una rivalutazione; ma il paese deviante verso il basso, signor Presidente del
Consiglio - e questo lo sappiamo da lunghe esperienze - finirà presto o tardi per dovere imboccare una di queste vie: agli
interventi con perdite di riserve faranno seguito svalutazioni non mitigate da contemporanee rivalutazioni della valuta
forte, e queste saranno necessariamente completate da restrizioni nella politica monetaria.
Abbiamo ottenuto, è vero, la banda
più larga; e si tratta certo - dobbiamo riconoscerlo - di un risultato
positivo. Positivo sì, ma non certo decisivo, se, come ebbe a dire il ministro
del tesoro alle Commissioni riunite esteri e finanze e tesoro il 20 luglio
scorso - cito testualmente - “il Governo italiano non annette eccessiva
importanza alla possibilità che siano consentiti in via transitoria ad alcuni
paesi margini di fluttuazione più ampi”.
E se, come è stato osservato anche
dal Cancelliere federale tedesco, una valuta debole si trova da sola in una
banda più ampia, può addirittura costituire un obiettivo più facile per la
speculazione, poiché - e questo costituisce un altro punto negativo
dell’accordo di Bruxelles - l’assenza della sterlina dall’accordo indebolisce
ulteriormente la posizione della lira.
Proprio per questo era stato
ripetutamente affermato da governanti e da esperti che il grado di
accettabilità del sistema doveva anche giudicarsi dalla circostanza che ad esso
avessero aderito tutte le valute comunitarie o solo alcune di esse.
Il bilancio del vertice di Bruxelles
è dunque negativo, proprio in relazione alle condizioni che il Governo aveva
definito irrinunciabili, con l’assenso parlamentare e con quello delle forze
politiche.
Presidente del Consiglio, se avesse
aderito all’accordo del 6 dicembre, avrebbe smentito il suo Governo.
Temo che il Presidente del Consiglio
comunicandoci oggi l’adesione senza che alcunché di nuovo sia intervenuto,
abbia smentito oggi il suo Governo.
Ma ci si dice, e con clamore
crescente: “Siano
messe da parte queste ”tecnicalità”! Che importa ottenere un po’ più o
un po’ meno di flessibilità, un po’ più o un po’ meno di simmetria, quando il problema è
politico e, superata la fase delle negoziazioni, deve trovare soluzione
politica?”.
Si potrebbe facilmente obiettare che,
se così fosse, ci si potevano ben risparmiare tante pene e tante fatiche,
sopratutto al ministro del tesoro. Si poteva dire subito che la questione era
se entrare o non entrare e non a quali condizioni.
Il Presidente del Consiglio poteva
presentarsi in Parlamento e sollecitare l’assenso all’ingresso, con mandato ad
acquistare il biglietto di ingresso “al meglio”, come si dice in gergo
borsistico.
Ma, al di là di questa notazione, ci
si può ben chiedere in quale senso il problema sia solo politico (come
certamente è), ma tanto politico da indurre a trascurare completamente una
valutazione dei costi economici derivanti al nostro paese dal particolare
assetto che quel nuovo sistema viene ad assumere.
Vi è un senso più chiaro e più nobile
in cui il problema può essere definito politico: si ritiene che l’edificazione del sistema
monetario rappresenti il primo sussulto dell’idea europea dopo anni di letargo;
l’occasione non può e non deve essere persa; pur di rafforzare la Comunità, occorre sopportare anche i sacrifici
che derivano dalle imperfezioni tecniche del sistema.
Questo è un argomento che occorre
valutare con attenzione, perché, come ripeto, è il più serio e il più nobile
che ci venga offerto.
Obiettare a questo argomento è pericoloso - si badi
- perché si rischia di essere marchiati
di antieuropeismo, si rischia di essere marchiati come nazionalisti, come
retrogradi, perché esiste anche una sorta di terrorismo ideologico europeistico.
Ma obiettare si deve.
Sono, quelle del sistema monetario,
imperfezioni tecniche o non piuttosto i difetti di una creatura nata politicamente male e
politicamente malformata?
Non derivano, queste imperfezioni,
dagli egoismi nazionali degli altri
paesi più forti della Comunità?
Perché mai,
altrimenti, i costi che ci si chiede
di sopportare dovrebbero essere solo i nostri, mentre non paiono esservi costi
per i paesi più forti?
Queste domande io vorrei porre agli
amici europeisti, insieme a tante altre.
Perché in sede comunitaria non si
parla più, se non con sprezzante fastidio, del rapporto McDougall, che definiva
i lineamenti di una nuova politica - questa, sì, veramente europea, nel senso
più vero e più pieno del termine! - una politica di bilancio per l’intera
Comunità, indipendentemente dalle nazioni che ad essa appartenevano?
E perché gli amici europeisti non si
battono, piuttosto che per la moneta europea, per l’unificazione delle politiche di bilancio, che sarebbe ben più
vigorosa per controllare la nostra spesa pubblica e sarebbe ben più equa per la
Comunità?
Perché ogni richiesta di modificare la politica agricola comune, in modo da
consentire una protezione non solo ai prodotti forti dei paesi forti, ma anche
all’agricoltura nascente dei paesi deboli, viene accantonata?
Perché già si prevede, nelle
inchieste condotte dal Governo
federale tedesco, che l’ingresso
dei paesi mediterranei, da noi desiderato e da noi favorito, si risolverà in una guerra tra poveri, non
essendo disposti i paesi ricchi a ridurre alcuno dei loro privilegi?
Perché, nei giorni in cui si trattava
sul sistema monetario europeo e si esaltava la nuova funzione che dovrebbe
assumere il Parlamento europeo, la decisione
di aumentare il fondo regionale, assunta dal Parlamento, è stata prima bloccata dal veto del rappresentante
francese e poi definitivamente sepolta al vertice di Bruxelles?
Non attribuisco, signor Presidente
del Consiglio, particolare importanza al Fondo regionale, ma poiché di politica
stiamo parlando e di segni, questi sono segni.
Perché il gallicanesimo della
politica francese ha potuto condizionare l’atteggiamento del Presidente della
Repubblica francese, mentre non si ammette che si compia in Italia una valutazione dei nostri
interessi nazionali?
Perché non certo l’Italia, ma la
Francia, intende limitare i poteri del futuro Parlamento europeo?
A queste domande, signor Presidente
del Consiglio, ne aggiungerei un’altra: riteniamo cosa saggia consentire che la
Gran Bretagna resti da sola al di fuori del sistema monetario, considerando
l’antieuropeismo endemico di quel paese?
Non è questo un modo per privare la
Comunità, di fatto se non di diritto, di uno dei suoi membri?
Vi è un secondo senso, signor
Presidente del Consiglio, in cui la questione può essere considerata politica,
un senso altrettanto chiaro come quello precedente, anche se meno
comprensibile.
Occorre - si ragiona - una costrizione esterna affinché la nostra
economia segua i comportamenti necessari per il suo risanamento; il sistema
monetario europeo è uno strumento che offre questa costrizione, perché rende
più duro e rigido il vincolo esterno.
E’ difficile condividere
un’impostazione siffatta, non solo perché essa risulta smentita dalla nostra
stesa esperienza di anni recenti (e, se mi consente, signor Presidente del
Consiglio, dalla sua esperienza del 1973), ma anche per altre ragioni: perché,
date le nostre condizioni iniziali, serve a noi un periodo di adattamento,
prima di assumere impegni di cambio; perché questo sforzo di risanamento non può avvenire
senza consenso, e il consenso deve essere suscitato, non può essere imposto;
perché occorre
minimizzare i costi sociali ed economici di questo sforzo e non
massimizzarli, con punizioni inutilmente costose, come avverrà in presenza di
un rigido vincolo di cambio; perché, infine, come ha recentemente
scritto con felice espressione il professor Mario Monti, già citato in
precedenza, il pur necessario vincolo sulla politica economica interna può
“essere altrettanto più efficace se viene vissuto come necessaria preparazione
ad un’entrata credibile piuttosto che come insostenibile conseguenza di
un’entrata prematura“.
Non resta, a questo proposito,
onorevole Presidente del Consiglio, che ricordare quanto due mesi fa ebbe a
dire il governatore Baffi: “Sarebbe cattiva ragion politica quella che venisse
adottata per ignorare i limiti e le condizioni nei quali possiamo impegnarci.
Il regime dei cambi fissi non ha avuto negli ultimi 60 anni un elevato valore
coesivo; il sistema monetario europeo darà un contributo alla coesione, ma non
possiamo determinarci nel presupposto che esso valga, quasi per incanto, a
suscitare negli ambiti nazionali le energie di consensi atti ad allineare
rapidamente le politiche interne ad un sistema di obblighi che fosse definito
con eccessiva durezza.”
Ed esiste purtroppo un. terzo modo di
concepire la questione come eminentemente politica, che è il meno chiaro, il
meno nobile.
La questione relativa all’adesione al
sistema monetario europeo può essere impiegata quasi a guisa di grimaldello per
mutare i presenti equilibri politici di partito e di maggioranza; può essere
concepita come prova di forza per affermare una supremazia; può essere intesa
come strumento per fini di parte e non come materia di cui si debba valutare
l’interesse pubblico.
E il meno chiaro e il meno nobile,
questo modo di concepire la questione, dell’adesione al sistema monetario
europeo come esclusivamente politica.
Ma purtroppo, onorevole Presidente
del Consiglio, lo voglia o non lo voglia, è quello che oggi sembra più
avvicinarsi alla realtà dei fatti.
A questo proposito si possono porre
alcune domande, che non trovano risposta, se non quella ovvia, appena indicata.
Perché alcuni che, come ho cercato di
dimostrare, erano sino a ieri fra gli scettici o fra i dubbiosi, per ragioni
economiche e tecniche precise, ma non per questo meno sostanziali, si sono
all’improvviso, da un giorno d’altro, schierati fra i fautori dell’adesione
immediata?
Ma questa è la domanda meno
importante.
Cosa è avvenuto di nuovo fra il 6
dicembre e oggi per averla indotta a sciogliere la riserva allora manifestata?
Nulla, stando a quanto ci ha
comunicato stamane.
Perché allora non aderire subito, il
6 dicembre?
Il costo e il contenuto politico
dell’operazione sarebbero stati assai minori con una adesione immediata, e la
questione che poteva essere prevalentemente tecnica, con un’adesione il 6
dicembre, è oggi diventata, lo si voglia o no, una questione politica.
Infine, perché non si è ritenuto di
prendere neppure in considerazione la soluzione, elaborata nei giorni scorsi,
dai colleghi del partito socialista italiano che ha trovato espressione formale
nella delibera di ieri della direzione del partito socialista italiano?
Era questa una soluzione razionale di
fronte a un problema sul quale non vi possono essere certezze, perché le
certezze sono stolte su questi problemi, sui quali la ragione suggeriva
soluzioni caute e tali da rendere minimi, nei limiti del possibile, i rischi
per la collettività nazionale.
In una soluzione di questo tipo si
sarebbe potuto trovare un punto di unità, un punto di impegno serio, senza
intrusioni, in una questione di tale importanza, da parte della bassa cucina
della politica.
Onorevole Presidente del Consiglio,
la sua scelta, dunque, in un modo o nell’altro, nel senso più nobile o in
quello meno nobile, è stata politica.
Ella, infatti, ha ritenuto di
accantonare le questioni tecniche; e d’altra parte ella è persona di troppo
buon gusto per attribuire importanza allo status symbol dell’appartenenza ad un
club: non basta il pagamento di una quota di abbonamento assai salata per
ottenere la vera eguaglianza con gli altri membri.
Questa eguaglianza ce la dobbiamo
costruire noi, con le nostre mani, con i nostri sacrifici, e per questo
dobbiamo ottenere e sollecitare un consenso. Ma questo consenso, onorevole
Presidente del Consiglio, non lo si ottiene con le formule monetarie o con le
imposizioni esterne. E’ nostro dovere, dovere di ciascuno
di noi, contribuire allo sforzo di risanamento del paese ed augurarci che tutte
le diagnosi tecniche contrastanti con la scelta eseguita siano errate.
Questo è un nostro preciso dovere. Il
dovere dunque, è nostro.
Ma da oggi, onorevole Presidente del
Consiglio, la responsabilità per ogni costo indebito che ci debba derivare da
questa frettolosa adesione al sistema monetario è sua, e non potrà essere
attribuita ad altri.
(Vivi applausi all’estrema sinistra - Molte congratulazioni).
In rete circola anche
l’intervento dell’allora deputato del PCI G: Napolitano sembre in merito alla
discussione dello SME. Intervenendo a nome del partito, illustrava anche lui, la
contrarietà a quello che sarebbe diventato il sistema monetario unico e
argomentava sostenendo che l’euro era fondato su un concetto insostenibile.
Seduta mercoledi 13 dicembre 1978
Signor
Presidente, onorevoli colleghi,
siamo
tutti consapevoli, credo, del significato e della difficoltà di questo
dibattito. E’ in gioco una decisione importante, rispetto alla quale
i pareri sono discordi, mentre vengono alla luce modi diversi di concepire
lo sviluppo della Comunità europea e di intendere la presenza e il ruolo
dell’Italia in seno alla Comunità.
Ma, se c’è
un paese in cui la discussione attorno a questi problemi, attorno ai problemi
suscitati dalla proposta di accordo monetario europeo, avrebbe potuto svolgersi
in termini del tutto obiettivi, senza essere alterata e deviata da
contrapposizioni ideologiche e da manovre politiche, questo paese, onorevoli
colleghi, è il nostro.
In Italia,
infatti, tra i partiti democratici, tra le forze fondamentali della nostra
società e nello spirito pubblico non circolano pregiudizi antieuropeistici; non
operano né tradizioni di isolamento, più o meno splendido, dal resto
dell’Europa, né presunzioni di grandezza nazionale. Le tendenze
nazionalistiche, sfruttate ed esasperate dal fascismo, e quindi travolte nel
suo disastro, non sono risorte, neppure come vaghe correnti di opinione, anche
grazie alla linea cui si sono ispirate tutte le forze democratiche italiane.
Non è meno
importante il fatto che, pur muovendo da posizioni diverse, tutte le forze politiche
e sociali che si riconoscono nei valori della Costituzione, si siano via via
riconosciute anche nei valori dell’europeismo democratico, liberati dalle
distorsioni e dagli strumentalismi del periodo della guerra fredda; si siano
riconosciute nel difficile sforzo di costruzione di un’Europa comunitaria
realmente ancorata a principi di solidarietà, di progresso sociale, di
cooperazione internazionale e di pace.
Che in
questo sforzo si considerino pienamente impegnati tutta la sinistra e il
movimento operaio – come dimostra la loro adesione senza riserve alla scelta
dell’elezione diretta del Parlamento europeo – è un fatto che differenzia in
non lieve misura la situazione italiana da quella inglese o francese. E’ un
punto di forza per il nostro paese sul piano internazionale, un punto di forza
che solo polemiche pretestuose ,ed irresponsabili possono oggi tendere ad
oscurare.
Nello
stesso tempo, non può non considerarsi una naturale manifestazione di vitalità
democratica e di ricchezza politica e culturale la dialettica di posizioni che
si esprime – nell’ambito di una comune scelta europeistica – tra diverse
valutazioni dell’esperienza comunitaria e diverse concezioni dell’azione – da
condurre in seno alla Comunità. La discussione attorno al progetto di sistema
monetario europeo avrebbe dunque, onorevoli colleghi, potuto svolgersi in
Italia in termini del tutto obiettivi. E così è stato, nel complesso, sino ad
alcune settimane fa: nonostante le disparità di opinioni, si è discusso a
lungo, e a più riprese, nel Parlamento e sulla stampa, tra i rappresentanti dei
partiti di maggioranza ed il Governo, tra gli specialisti di ogni tendenza,
all’interno del mondo economico e sindacale, entrando nel merito dei problemi,
nel concreto delle proposte avanzate e delle loro implicazioni, della
trattativa in corso e della linea da seguire in tale trattativa e dei risultati
che via via si ottenevano.
Oggi,
nella fase finale, sono affiorate e prevalse forzature di varia natura. Su di
esse tornerò più avanti. Mi limito ora a rilevare che queste forzature sono
venute da una parte sola, cioè da coloro che hanno premuto per l’ingresso
immediato dell’Italia nel sistema monetario.
Il
Presidente del Consiglio ha dato atto, nel suo discorso di ieri mattina che né
prima né dopo il vertitce di Bruxelles sono state fatte verso il sistema
monetario di cui stiamo discutendo eccezioni mosse da riserve europeiste o da
contrarietà alla creazione di un sistema monetario come tale. Non si può,
invece, negare ,che le pressioni in senso opposto le la scelta conclusiva siano
state viziate da schemi e da calcoli che prescindevano da una valutazione
obiettiva dei termini del problema.
Ma mi si
permetta, onorevoli colleghi, signor Presidente, di ripartire dalla posizione
assunta da noi comunisti di fronte al vertice di Brema, di fronte alle
indicazioni scaturite nel luglio scorso da quella riunione dei capi di Governo
della CEE. Guardammo allora con interesse ai propositi di rilancio del processo
di integrazione e di maggiore solidarietà, per far fronte ad una crisi di
portata mondiale, per accelerare lo sviluppo delle economie europe e combattere
la disoccupazione e, insieme, ridurre l’inflazione. Non negamno l’esigenza di
realizzare, a questo fine, anche una maggiore stabilità nei cambi, non esprimemmo
alcuna pregiudiziale negativa nei confronti dell’idea di un nuovo sistema
monetario europeo.
Ponemmo
invece il problema della relazione tra uno sforzo inteso a conseguire una
maggiore stabilità nei rapporti tra le monete e lo sforzo inteso ad avvicinare
le situazioni e le politiche economiche e finanziarie dei paesi della Comunità
in funzione di obiettivi chiari di crescita, di riequilibrio, di progresso
sociale. Ponemmo in questo senso il problema delle condizioni in cui il nuovo
sistema monetario europeo avrebbe potuto nascere come strumento valido e
vitale, al quale l’Italia avrebbe potuto aderire fiin dall’inizio.
E’ un
fatto, signor Presidente del Consiglio, che quindi ci riconoscemmo nelle
condizioni formulate dal Governo italiano e illustrate alla Camera dal ministro
del tesoro nella seduta del 10 ottobre, e valutammo via via l’andamento del
negoziato in rapporto a quelle condizioni. Su di esse sembrarono concordare
tutti i partiti della maggioranza; ma mentre alcuni hanno poi finito per
discostarsene nei loro giudizi, è ancora ad esse che noi ciriferiamo nel
valutare le conclusioni raggiunte a Bruxelles e la decisione a cui ieri è
pervenuto il Presidente del Consiglio.
Consideriamo
non seria – mi si consenta di dirlo – la tendenza a liquidare come problema
tecnico irrilevante quello di una attenta verifica dei contenuti della
risoluzione di Bruxelles del 5 dicembre per valutarne la rispondenza alle
concrete esigenze poste da parte italiana. Quello delle garanzie da conseguire
affinché il nuovo sistema monetario possa avere successo, favorire un
sostanziale riequilibrio all’interno della Comunità europea (e non sortire un
effetto contrario), contribuire a una maggiore stabilità monetaria e ad un
maggiore sviluppo su scala mondiale, è un rilevante problema politico.
Le
esigenze poste da parte italiana non riflettevano solo il nostro interesse
nazionale: la preoccupazione espressa dai nostri negoziatori fu innanzitutto
quella di dar vita a un sistema realistico e duraturo, in quanto – cito parole
e concetti del ministro del tesoro e del governatore della Banca d’Italia – “Un
suo insuccesso comporterebbe gravi ripercussioni sul funzionamento del sistema
monetario internazionale, sull’avvenire e sulle possibilità di avanzamento
della costruzione economica europea e sulle condizioni dei singoli paesi”.
E come
condizione perché il nuovo sistema risultasse realistico e duraturo si indicò
uno sforzo volto a contemperare le esigenze di rigore che un sistema di cambi
deve necessariamente avere con la realtà della Comunità, che presenta
situazioni fortemente differenziate; e in modo particolare si sollecitò una
flessibilità del sistema tale da accompagnare senza sussulti il cammino del
rientro dell’Italia verso condizioni economiche generali e, più in particolare,
verso condizioni di inflazione prossime a quelle dei paesi più forti.
Gli
interessi della costruzione comunitaria e gli interessi dell’Italia si sono
cioè presentati come strettamente intrecciati tra loro.
Ma,
ciononostante, le condizioni poste da parte itaiiana sono state in notevole
misura disattese, e i rischi paventati e indicati dai nostri negoziatori e da
tanti osservatori obiettivi, da tanti studiosi ed esperti, rimangono
sostanzialmente in piedi.
Ella,
onorevole Andreotti, ha dato invece nel suo discorso di ieri un apprezzamento
largamente positivo dei risultati ottenuti, e non ha parlato più dei rischi. Ma
l’apprezzamento positivo, punto per punto, strideva, me lo consenta, con il suo
stesso giudizio complessivo, secondo cui la riunione di Bruxelles ha solo in
parte soddisfatto le aspettative, dando l’impressione che si dimensionassero
sia la suggestiva cornice di Brema, sia taluni propositi di concreta
solidarietà che erano apparsi realistici nella fase preparatoria.
Inoltre,
mentre su alcuni punti è apparsa corretta la valorizzazione, che noi non
contestiamo, dei risultati conseguiti (la possibilità per la lira di oscillare
nella misura del 6 per cento anziché del 2,25 per cento; le disponibilità di
quello che poi diventerà il Fondo monetario europeo; alcuni aspetti del
funzionamento dei meccanismi di credito), nella sua esposizione, onorevole
Andreotti, non sono stati però presentati nella loro effettiva e cruda realtà i
punti più negativi delle conclusioni di Bruxelles.
Così, per
quel che riguarda gli accordi di cambio in senso stretto, si è teso quasi a far
credere che si sia ottenuta una equilibrata distribuzione degli oneri di
aggiustamento o, come si dice, una simmetria degli obblighi di intervento, tra
paesi a moneta forte e paesi a moneta debole, in caso di allontanamento dai
tassi di cambio iniziali e di avvicinamento al margine estremo di oscillazione
consentito.
Ma
l’ulteriore alterazione nell’ultimo vertice di Bruxelles nella formula relativa
a questo aspetto essenziale dell’accordo di cambio, quella sostituzione – che
può apparire innocuamente bizantina dell’avverbio “eccezionalmente” con
l’espressione “in presenza di circostanze speciali”, è stata solo la conferma
di una sostanziale resistenza dei paesi a moneta più forte, della Repubblica
federale di Germania, e in modo particolare della banca centrale tedesca, ad
assumere impegni effettivi ed a sostenere oneri adeguati per un maggiore
equilibrio tra gli andamenti delle monete e delle economie di paesi della
Comunità.
E così
venuto alla luce un equivoco di fondo, di cui le enunciazioni del consiglio di
Brema sembravano promettere lo scioglimento in senso positivo e di cui, invece,
l’accordo di Bruxelles ha ribadito la gravità: se cioè il nuovo sistema monetario
debba contribuire a garantire un più intenso sviluppo dei paesi più deboli
della Comunità, delle economie europee e dell’economia mondiale, o debba
servire a garantire il paese a moneta più forte, ferma restando la politica non
espansiva della Germania federale e spingendosi un paese come l’Italia alla
deflazione.
E ben
strano, mi si consenta, che di questo rischio, così presente nelle
dichiarazioni del rappresentante del Governo il 10 ottobre alla Camera e il 26
ottobre al Senato, non si parli più nel momento in cui si propone l’adesione
immediata, alle attuali condizioni, dell’Italia al sistema monetario europeo.
Non voglio
ripetere le considerazioni già svolte puntualmente dal collega Spaventa sui
motivi che giustificano e impongono un particolare sforzo del nostro paese per
conseguire un più alto tasso di crescita, e sul rischio che invece i vincoli
del sistema monetario, quale è stato congegnato, producano effetti opposti.
Ma
desidero sottolineare che nulla ci è stato detto per confutare analisi come quella
citata dal collega Spaventa secondo cui, di fronte ad una tendenza alla rapida
svalutazione della lira rispetto al marco, che discende dallo scarto
attualmente così forte tra tasso di inflazione italiano e tedesco, le regole
dello SME ci possano portare ad intaccare le nostre riserve e a perdere di
competitività, ovvero a richiedere di frequente una modifica del cambio, una
svalutazione ufficiale e brusca della lira fino a trovarci nella necessità di
adottare drastiche politiche restrittive.
Il rischio è comunque quello di dissipare i risultati conseguiti negli
ultimi due anni in materia di attivo della bilancia dei pagamenti e delle
riserve, quei risultati di cui anche il cancelliere Schmidt, con un giudizio
politicamente significativo, ha nei giorni scorsi messo in luce il valore.
Il rischio è quello di veder ristagnare la produzione, gli investimenti e
l’occupazione invece di conseguire un più alto tasso di crescita; di vedere
allontanarsi, invece di avvicinarsi, la soluzione dei problemi del Mezzogiorno.
Questi
rischi erano tanto presenti al Governo e ai suoi rappresentanti nel negoziato
per il sistema monetario che essi non solo avevano richiesto garanzie – in
materia di accordi di cambio – ben più consistenti di quelle che si sono
ottenute, ma avevano posto, come una delle condizioni non scambiabili con
altre, quella del trasferimento di risorse e dalla revisione delle politiche
comunitarie in funzione dello sviluppo delle, economie meno prospere.
Si disse
che andava così compensata la più rigida disciplina economica, comunque
implicita nel sistema monetario, e che occorreva procedere simultaneamente
nelle diverse direzioni.
Mi pare
che si tentasse di evitare che quella che il Presidente dal Consiglio ha ieri
definito <la suggestiva cornice di Brema>, restasse solo una cornice e
per di più ridimensionata. Da questo punto di vista, le cose sono andate
purtroppo nel modo più deludente – non è giusto nascondercelo – per i limiti
posti sia all’ammontare dei nuovi prestiti disponibili per l’Italia e l’Irlanda,
sia alla misura (non più dd 3 per cento) degli abbuoni di interesse, sia
all’utilizzazione dei prestiti stessi, con l’esclusione di qualsiasi progetto
per lo sviluppo industriale (per quel ci riguarda nel Mezzogiorno) e
addirittura di qualsiasi progetto che alteri i termini della
<<competitività di particolari industrie all’interno degli Stati membri
>>.
Il problema
non era per altro solo questo, ma quello del concreto avvio alla revisione e
allo sviluppo di determinate politiche comunitarie; anche se ovviamente nessuno
si illudeva che tale revisione potesse essere conclusa entro il 4 o il 5
dicembre. Ma contano, a questo proposito, i segni negativi che si
sono avuti.
Il primo
vi è stato con il rifiuto francese di aumento del fondo regionale; rifiuto che
significa molte cose: negazione dell’autorità del Parlamento europeo;
negazione, al limite, della necessità di una politica di riequilibrio
nell’ambito della comunità, di cui il mezzogiorno d’Italia sia tra i principali
beneficiari; tendenza, comunque, della Francia a sottrarsi ad un maggior
impegno in questo senso.
L’altro
segno negativo è costituito dal fatto che a Brema non si sia riusciti ad
avviare seriamente alcun processo di revisione della politica agricola
comunitaria; che non si sia preso in esame neppure il memorandum a questo scopo
predisposto e preannunciato dal presidente della Commissione Jenkins. Non si
sono nemmeno avuti chiarimenti esaurienti rispetto alle preoccupazioni esposte
di recente nella Commissione agricoltura del Senato da esponenti di diversi
gruppi, del partito repubblicano, della democrazia cristiana, e dallo stesso
ministro dell’agricoltura, per quel che riguarda le ripercussioni di un’entrata
immediata dell’Italia nello SME sul sistema dei prezzi agricoli, mentre non si
sono definiti finora i correttivi di cui a questo proposito si è parlato, e le
ipotesi pure ventilate di svalutazione della <lira verde> sollevano
intanto seri interrogativi sugli effetti inflazionistici che ne potrebbero
derivare.
Il tema
della politica agricola comunitaria, onorevoli colleghi, è un tema centrale; e
quando si compie il bilancio di questa politica, come di tutta l’esperienza
comunitaria, non si deve indulgere a semplificazioni retoriche di stampo
idilliaco.
Non si può
parlare di politica agricola comunitaria solo per ricordarne il fine dichiarato
di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni rurali, e tacere sulle
grandissime distorsioni che essa ha prodotto a beneficio dei paesi più ricchi a
svantaggio di paesi come l’Italia, alla quale – se si calcola la differenza tra
i prezzi dei prodotti CEE importati dall’Italia e quelli vigenti sul mercato
internazionale – è stata addossata una tassa che da qualcuno viene calcolata
(si tratta di calcoli probabilmente discutibili, ma non possediamo stime
ufficiali) in 2 mila miliardi di lire.
Tornando,
Signor Presidente, alle conclusioni raggiunte a Bruxelles, non c‘è dubbio
che esse autorizzassero largamente la decisione, presa il 5 dicembre dal
Presidente del Consiglio, non di aderire entro otto giorni, ma di riservarsi
ancora sostanzialmente la scelta dell’adesione immediata e a tutti gli effetti
oppure no.
E le
valutazioni espresse nel merito dei risultati ottenuti dal ministro degli
esteri e dal ministro del commercio con l’estero pubblicamente, dal
ministro del tesoro in Parlamento, ed in sede tecnica dalla autorità monetaria
(senza che questa per altro travalicasse i limiti della propria competenza ed
invadesse il campo della autorità politica, senza che si prestasse a
strumentalizzazioni né in un senso né nell’altro), queste valutazioni sono a
noi apparse tali da giustificare pienamente una scelta che si limitasse ad una
dichiarazione di principio favorevole e alla partecipazione a talune delle
operazioni previste dalla risoluzione di Bruxelles, e che escludesse
l’accettazione dal 1° gennaio dei vincoli di cambio, del meccanismo del tasso
di cambio, tanto più in presenza di una analoga decisione della Gran Bretagna,
con tutto ciò che questa decisione comportava e comporta.
Una scelta
che infine esprimesse un impegno positivo e incisivo- dell’Italia per
l’ulteriore confronto su tutti gli aspetti del nuovo sistema monetario e della
politica complessiva di sviluppo della Comunità.
Perché non
si è seguita questa strada ?
Perché non
si sono raccolte le preoccupazioni e gli avvisi di prudenza che venivano
da diversi settori della maggioranza e dall’interno dello stesso Governo ?
Queste preoccupazioni
nascevano anche dall’esigenza finora non sodisfatta di collocare la creazione
di un’area di stabilità monetaria in Europa nel più vasto quadro – ne ha
parlato il collega Spaventa – di una ridefinizione dei rapporti con l’area
del dollaro e di uno sforzo per giungere ad un nuovo ordine monetario
internazionale e per contribuire ad una accelerazione, non ad un rallentamento,
dello sviluppo economico mondiale.
Perché non si sono
ascoltate abbastanza nei giorni scorsi queste voci e si è giunti ad una
decisione precipitata ed arrischiata ? Onorevoli
collleghi, su questo punto noi non possiamo ritenere che si sia fatta
sufficiente chiarezza finora e ci si permetterà di contribuire alla ricerca di
risposte sodisfacenti.
Parto dalle
sollecitazioni e motivazioni davvero più nobili, quelle dei più ardenti fautori
dell’unità europea, tra i quali il collega ed amico Altiero Spinelli. Questi
amici si sono preoccupati di non contribuire, con una decisione di non ingresso
immediato dell’Italia nello SME, a un parziale insuccesso di quello che appare
il primo rilevante tentativo di rilancio del processo di integrazione europea
dopo anni ed anni di involuzione e di crisi. Ma quello che non ci ha persuaso in
tale motivazione è la tendenza ad attribuire ad un tentativo del genere, così
come è concepito e congegnato, la virtù di mettere in moto una reale ripresa su
basi nuove e solide dell’integrazione europea.
No,
onorevoli colleghi, noi siamo dinanzi ad una risoluzione, quella di Bruxelles, che
assume i limiti ristretti della creazione di un meccanismo del tasso di cambio
le cui caratteristiche rischiano per di più di creare gravi problemi ai
partecipanti.
Naturalmente
non sottovalutiamo la importanza degli sforzi rivolti a creare un’area di stabilità
monetaria. Ma se è vero che le frequenti fluttuazioni dei cambi costituiscono
una causa di instabilità e un fattore negativo per lo sviluppo del commercio
intracomunitario (la crisi di questo commercio non può per altro essere
ricondotta soltanto alle fluttuazioni nei cambi) è vero anche che esse sono il
riflesso di squilibri profondi all’interno dei singoli paesi, all’interno della
Comunità europea e nelle relazioni economiche internazionali.
La verità
è che forse – come si è scritto fuori d’Italia – si è finito per mettere il
<< carro >> di un accordo monetario davanti ai <<buoi>>
di un accordo per le economie. Ed è invece proprio su questo terreno, oltre che
su quello della revisione del meccanismo dei cambi in quanto tale, che
occorreva continuare a premere, a discutere, a negoziare.
Ma – ci si
chiede – come: stando dentro o stando fuori?
Francamente
di fronte ad una domanda di questo genere noi sentiamo il bisogno di osservare
– e mi scuso per l’ovvietà – che il 5 dicembre non si è creata a Bruxelles una
nuova Comunità europea al posto della vecchia.
Noi
continuiamo, evidentemente, qualunque sia la decisione relativa allo SME, a
stare dentro tutte le istituzioni e le sedi di confronto comunitarie; possiamo
anche partecipare, pur non aderendo nell’immediato al sistema monetario, a
consultazioni specificamente previste dalla risoluzione di Bruxelles in materia
di politiche monetarie.
Il
documento approvato il 5 dicembre – e questo è un suo aspetto indubbiamente
positivo – non scava alcun solco fra chi aderisce subito e chi si riserva di
aderire successivamente; né credo che il nostro ingresso immediato
avrebbe avuto un effetto traumatico, quasi che dipendesse da ciB che lo SME
nascesse, come ha detto ieri l’onorevole Andreotti, a sei invece che ad otto e
mezzo (tanto per restare nel gergo monetario, non riesco a capire quale unità
di conto abbia adoperato l’onorevole Andreotti per attribuire un peso del due e
mezzo all’ingresso immediato dell’Italia nel sistema monetario).
E nostra
convinzione che avremmo potuto esercitare una maggiore forza contrattuale
mantenendo la nostra riserva, la nostra posizione di non ingresso immediato.
Onorevoli
colleghi, in quest’aula si è parlato (vi si è riferito poco fa anche il collega
Cicchitto)delle sollecitazioni e delle assicurazioni pervenuteci negli ultimi
giorni da governi amici; sembra anche che esse abbiano avuto un notevole peso
nella scelta finale del Governo.
Per la
verità voglio ricordare che anche qualche altra volta abbiamo ricevuto
telegrammi. Ricevemmo – non è vero, ministro Marcora? – un telegramma pieno di
assicurazioni dal cancelliere Schmidt anche nel maggio scorso, per invitarci a
sciogliere la riserva sul negoziato per i prezzi agricoli e sul <<
pacchetto >> mediterraneo.
Quale
seguito han. no avuto quelle assicurazioni telegrafiche ?
Anche in
questa occasione più dei messaggi a fuochi spenti sarebbe valso l’accoglimento
concreto di determinate istanze e proposte.
Queste
sollecitazioni, comunque, confermano l’esistenza di un reale e forte
interesse degli altri paesi membri della Comunità ad avere l’Italia al più
presto presente nel sistema monetario. Si sarebbe, dunque, potuto far leva
su questo interesse, non dando la adesione immediata allo SME, per portare
avanti un serio negoziato, utilizzando le stesse scadenze previste dalla
risoluzione di Bruxelles, in particolare la scadenza della revisione di
determinate misure dopo sei mesi, nonché altre occasioni e scadenze,
soprattutto quella della annuale trattativa di marzo sui prezzi agricoli, che
va trasformata in un ben più ampio ed impegnativo negoziato sulla politica
agricola nel suo complesso, partendo da proposte già elaborate in Italia dai
partiti, dal Parlamento e dal Governo, per le modifiche da realizzare sia
nell’immediato, sia nel medio periodo.
Si tratta,
in definitiva, di muoversi in modo conseguente per una trasformazione della
Comunità – a cui ci auguriamo possa contribuire anche quell’importante, primo
elemento di democratizzazione che è costituito dall’elezione diretta del
Parlamento europeo – che punti all’affermarsi di un nuovo modo di guardare allo
sviluppo dell’economia europea, non concependo più – siamo d’accordo su questo
punto fondamentale con il collega Spinelli – questo sviluppo come
consolidamento delle economie più forti e come ulteriore elevamento del livello
di benessere nei paesi più ricchi, ma come impegno di espansione verso le
regioni più arretrate della stessa Comunità e verso i paesi di quello che
veniva definito terzo mondo.
Ma se ci
si vuole, onorevoli colleghi, confrontare con questi che sono i problemi di
fondo, i problemi delle politiche economiche, del ritmo e della qualità dello
sviluppo, bisogna sbarazzarsi di ogni residuo di europeismo retorico e di
maniera dando ben altra organicità, forza e coerenza alla presenza dell’Italia
nella Comunità.
Sappiamo
che passa qui una linea discriminante fra diversi modi di concepire e di
praticare l’impegno europeista, ma sappiamo anche che su questo punto esistono
posizioni convergenti fra diversi partiti; in primo luogo, come hanno dimostrato
le vicende di queste settimane e questo dibattito, tra il partito comunista ed
il partito socialista, ma non salo tra essi.
Nella
nostra visione – desidero ribadirlo – tutela degli interessi nazionali e
impegno per il rilancio dell’integrazione europea fanno tutt’uno.
Nessuno di
noi ha commentato il vertice di Bruxelles ponendo i problemi come li ha posti
il primo ministro Callaghan ai Comuni, senza essere per questo accusato di
golpismo.
“La
semplice verità” – ha dichiarato Callaghan – “è che noi a Bruxelles abbiamo
valutato i nostri interessi nazionali esattamente come altri paesi hanno
valutato i loro”.
Noi non
poniamo i problemi in questi termini, proprio perché siamo convinti che
l’interesse ,del nostro paese, e specificamente l’interesse del nostro
Mezzogiorno, coincida con la causa di uno sviluppo della Comunità su base di
maggior coordinamento e integrazione delle politiche economiche e in direzione
delle regioni più arretrate. Ma quella che non possiamo accettare è una
posizione di rinunci a battersi per la trasformazione della Comunità e ‘dei
suoi indirizzi, di sfiducia radicale nel ruolo ,del nostro paese e di
utilizzazione strumentale dei nostri impegni comunitari a fini interni, quali
che siano.
Da parte
di alcuni esponenti del partito repubblicano si è giunti a sostenere che
<< l’Italia non dovesse scegliere in questi giorni se appartenere o meno
ad un meccanismo valutario o ad un’area di stabilità dei cambi, ma se recidere
>> – dico recidere – << o meno i suoi legami con i paesi
dell’Europa occidentale, sul terreno economico e sul terreno politico.
Ma questa
è una tesi che non trova alcun riscontro obiettivo, che non poggia su alcun
argomento razionale e si colloca, invece, nel quadro di una drammatizzazione
gratuita ed esasperata della scelta che era davanti al nostro paese.
Si è
giunti anche a dire che, d’altra parte, noi saremmo nell’imbarazzo, perché
l’europeismo dei comunisti deve ancora tradursi in atti pratici.
Ma atti
pratici, contributi pratici sul terreno europeistico ne abbiamo dati assai più
di altri, in dieci anni di lavoro altamente qualificato nel Parlamento europeo,
che qualunque osservatore obiettivo ha riconosciuto ed apprezzato.
Al di là
di ciò già un mese fa non è mancata in qualche discorso da me personalmente
ascoltato l’affermazione che il
nostro paese non fosse in grado di porre alcuna condizione e che la sola
speranza di salvare l’Italia da sviluppi catastrofici della crisi attuale fosse
il vincolo esterno di un rigoroso meccanlsmo di cambio.
Chi
sostiente questo fa un grave torto a tutte le forze democratiche italiane
dimenticando prove come quella dell’autunno 1976, quando, di fronte ad una
drammatica caduta della lira i partiti dell’attuale maggioranza, i partiti
democratici, con la collaborazione delle forze sociali, con la collaborazione
del movimento sindacale, seppero assumere impegni severi, che valsero ad
evitare il peggio e permisero di conseguire quei risultati, per quanto
parziali, su cui oggi possiamo fare affidamento per fronteggiare le difficoltà
che ci stanno davanti.
Noi non
attenuiamo minimamente – ella lo sa, onorevole Ugo La Malfa, ma io tengo a
ribadirlo – il nostro giudizio sulla persistente e per certi aspetti crescente
gravità degli squilibri di fondo che minano lo sviluppo economico e sociale del
nostro paese. Noi non ci nascondiamo
l’acutezza di problemi come quelli della produttività, del costo del lavoro,
della competitività.
Concordo
con le considerazioni che sono state svolte a questo proposito da altri
colleghi. Non può reggere a lungo – è questa la nostra persuasione – una
<< via italiana >> alla competitività, basata su una svalutazione
strisciante, su un alto tasso di inflazione, sull’economia sommersa e sul
lavoro nero.
E – voglio
aggiungere – non ci nascondiamo le difficoltà che incontra lo sforzo per
trovare consensi nelle parti sociali attorno a comportamenti coerenti con le
esigenze del rilancio degli investimenti, di sviluppo del Mezzogiorno e
dell’occupazione e, insieme, di lotta all’inflazione.
Ma queste
difficoltà non vengono solo dall’interno del movimento sindacale e lì,
comunque, siamo noi che con più chiarezza e coraggio reagiamo a posizioni che
consideriamo sbagliate. La si smetta, però, onorevoli colleghi, di guardare da
una parte sola, senza vedere le responsabilità che altre forze si stanno
assumendo (parlo di forze imprenditoriali) con i loro atteggiamenti negativi
nei confronti di ogni prospettiva di programmazione e nei confronti proprio
delle più qualificate proposte del movimento sindacale.
Comunque,
proprio per rispondere a queste difficoltà fu concepito il << documento
Pandolfi>> e si assunse l’impegno del piano triennale il cui
obbiettivo – non si dimentichi – deve essere la riduzione graduale del tasso di
inflazione ma, insieme, il rilancio degli investimenti e della occupazione, in
un contesto di rinnovata solidarietà europea.
E’ sul
piano triennale che si deve realizzare il necessario severo confronto fra tutte
le parti investite di responsabilità nella vita politica, economica e sociale.
Ma in
quale rapporto con questo impegno così importante andava posta la questione
dell’ingresso immediato o meno dell’Italia nel sistema monetario europeo ?
Condividiamo
l’opinione che è stata espressa, secondo cui il confronto sul piano triennale
previsto per le prossime settimane andava assunto come la necessaria
preparazione ad una entrata credibile dell’Italia nel nuovo sistema, piuttosto
che come insostenibile conseguenza di una entrata prematura.
Se oggi,
comunque, tra i fautori dell’ingresso immediato circolasse il calcolo di far
leva su gravi difficoltà che possono derivare dalla disciplina del nuovo
meccanismo di cambio europeo per porre la sinistra ed il movimento operaio –
eludendo la difficile strada della ricerca del consenso – dinanzi ad una
sostanziale distorsione della linea ispiratrice del programma concordato tra le
forze dell’attuale maggioranza, dinanzi alla proposta di una politica di
deflazione e di rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un
calcolo irresponsabile e velleitario, non meno di quelli che hanno spinto
determinate componenti della democrazia cristiana a premere per l’ingresso
immediato dell’Italia nello SME in funzione di meschine manovre
anticomuniste, destinate a sgonfiarsi rapidamente ma non senza aver prodotto il
danno di una irresponsabile mescolanza tra fatti di corrente e di partito e
scelte altamente impegnative, sul piano internazionale e sul piano interno, per
il nostro paese.
Noi
attendiamo, onorevoli colleghi, le risposte del Governo – dando già ora ed
essendo pronti a dare il nostro contributo costruttivo – sui problemi aperti
acutamente e posti con forza dal movimento sindacale per Napoli, la Calabria ed
il Mezzogiorno, problemi ormai non più prorogabili, sui temi di una politica di
seria lotta all’inflazione ed alla disoccupazione sui contenuti e gli strumenti
del piano triennale per la finanza pubblica e per la economia che dovrà essere
presentato entro il 31 dicembre.
Anche in
questo momento difficile, che vede una divisione non certo irrilevante in seno
alla maggioranza, il nostro obbiettivo, la nostra scelta non è una crisi di
Governo, ma il superamento delle debolezze e delle ambiguità che hanno finora
caratterizzato l’azione di Governo, il rilancio della solidarietà tra i
partiti della maggioranza per superare l’emergenza, per risanare l’economia
italiana rinnovandola nelle sue strutture, per risanare la finanza pubblica
attraverso una pratica di effettivo rigore in tutte le direzioni e garantendo
una effettiva giustizia – dalla quale si continua a restare molto lontani –
nella ripartizione dei sacrifici.
Dicevo
all’inizio, onorevole Andreotti, che condividiamo oggi un dibattito difficile;
ma nella vita di un’ampia maggioranza come quella che oggi sorregge il Governo
vi sono momenti in cui si impongono la chiarezza delle rispettive posizioni e
la distinzione delle responsabilità.
Questa
distinzione, onorevole Presidente del Consiglio, noi non l’abbiamo ricercata.
Ella ha ritenuto di dover compiere una scelta, che consideriamo rischiosa e da
cui dissentiamo, e di doversi assumere una responsabilità che non ci sentiamo
di condividere.
Ci
auguriamo che le prossime scadenze vedano una seria ripresa dell’impegno comune
dei partiti dell’attuale maggioranza a fare uscire il paese dalla crisi.
Ci guida
comunque la serena coscienza di aver operato lealmente nell’interesse
dell’Italia e dell’Europa
(Vivi
applausi dell’estrema sinistra – congratulazioni).
La contrarietà di
Napolitano all’epoca non era per l’unione Europea in se ma, la critica espressa
era economico distributiva che, a causa del vincolo esterno all’epoca lo SME e
la virtualizzazione successiva della Lira in ECU, avrebbe costretto il paese a
pesanti riforme salariali (mai fatte fino ad oggi) per la sostenibilità de
cambi fissi. Nella migliore delle ipotesi la vecchiaia gli ha fatto perdere
lucidità, nella peggiore( e più probabile secondo me) mente sapendo di
mentire.
....”la questione del
regime del divieto di aiuti di Stato, unita a quella della disfunzionalità in radice dei fondi perequativi intra-UE, se non
altro come volume realistico, a svolgere il ruolo di effettivi
"trasferimenti",era dunque
già emersa prepotentemente”....
http://orizzonte48.blogspot.it/2014/01/le-contromosse-dellordoliberismo-2-il.html?m=1 Vi rimando al blog
orizzonte48 del Presidente Luciano Barra Caracciolo
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